Extract from the novel “Coeva” – Estratto dal romanzo “Coeva”
STRANGE INHIBITIONS
(Where the second mask is unveiled and Vèlle assumes a lesbian female jackal’s looks)
A hidden crocodile was on the moved steep bank with a bold heart. A naked Gentlewoman was training him with a palmed scourge, as it has always been. An elephants herd, ardently effervescents, psalmodized gigolo worm’s tale.
The second pretence was a Felis Pardus’ one. Shining hymenopterans, which they were used to prick meats at the Tropic of Capricorn, announced Her appearance. Like an evil enemy were shown, myself was compelled to conform myself to her looks, assuming the looks of a tawny Srgala. The Leopard Queen drew perceptions without any impediment, while she was sheltering in safety from the mind. She perceived places and times, revived boiling over and beating, provoking and assuaging. Transformed into very desirous nightmares, under this tension, my nerves began to relax. Lady Leopard of my devotion, dark angel, trail, fire-fly, solve my lechery! Cream of feedback the distorsion feeds me in every raw meal, wild, I wriggle. Might I be the myrrh-oiled Nubian, come to lay my bait. I spread traps with a spotted cage in my hand. My claws are full of resin. So she spoke to me. The apple-tree open thy mouth! I keep green in every season, my seeds are like thy teeth. The fig-tree open thy second mouth! Catechized the Queen.
Leopard Queen: To the water’d lands, to the virgin lands being whipped, my little, insignificant Jackal! Door-knockers are open, latchs are molten to th’ entrance of my canal. I can produce a good nectar and Tomorrow shall be the great day.
Jackal: O, ay, I faint to the merely imagination to be a slave and blindfolded destiny to an hard authoress. When you are in your best mood strip me, treat me as you asre used to and if you will relieve your fancy do it. I would creep on your gilded boat like a worm! Do not let me wither in a vessel but squash me in a tome.
Leopard Queen: I become inflamed with an orange magma. Feverishly I excite, tortuosly, to make totter an Amazon’s mane.
With the thirst no more hiss to the womb, some pillows reduced the wait while laid, I waited for the eclipse.
Leopard Queen: Be not fooled, I shall never tame my rebellious energy. I recall to my groin an unmentionable maze. I, queen, crowd in pockets passion and power.
Jackal: I have the fidgets. I pray thee, call the Monitor Lizard Prince! Sliding down, I sleep rocked within a fruit. We are cover’d with lichens and bigger thy legs are.
Leopard Queen: Sleek the snakes on thy head. I am the estrous’d Queen, I can do everything, locking thy mean univers with a waxed padlock. I am clouds and rain, I am Yun yu. I am a bitter pompe jetsam and a glazed-leather’d lizard tongue. I roar in thy sphincter and the rice-field come straight in thy mouth. I am an intented fellatio. Thou gamblest, my foul Jackal.
Jackal: My desire of killer thigs is humour-pilloried, of violent lavative, drenched with fizzy calendula.
Leopard Queen: Don’t discredit me, thou dirty beast!
Jackal: When the sponge is high-water’d, I lick shameless.
Leopard Queen: I impose on th’ transgressor his transgression, on th’ sinner her sin.
Jackal: I receive brambles and thistles to rub on my skin.
Leopard Queen: Remember well! I shall punish thee if thou art not respectful with me.
Jackal: Tie me of total depilation.
Leopard Queen: Ha ha ha, with thirsty pleasure to scourge’s cure, in libido’s secret wardrobes, I dedicate and inflict thee.
Jackal: Broken and surmounted, I have no reserve.
Leopard Queen: This day shall not be repeated, time’s splinter, great gem. This day shall never return. Every instant is worth an invaluable gem.
Jackal: Expired blow comes out and inhaled blow comes into at will, my Queen.
Leopard Queen: When I’m throbbin’, I disclose the entire world, know that.
Jackal: A jackal, piece of meat to be used; ’tis just what I am now, a jackal.
Leopard Queen: Repetitiveness is devastating: bordo for motion, tragedy for th’ listener, intelligence’s prolapse.
Jackal: Arrogant and inflexible thou carriest me to th’ new. I am sucking fingers to an inquisitress.
Leopard Queen: A sluggard’s fruit is not granted at invasion’s first attempt.
Jackal: I am filled with magnesium and potassium.
Leopard Queen: Thou art almost without saliva! Let thee unclose. I will no more.
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STRANE INIBIZIONI
(Dove si disvela la seconda maschera e Vèlle prende le sembianze di una saffica sciacallo)
Un coccodrillo acquattato stava sulla mota ripa con cuore audace. Una Gentildonna nuda lo ammaestrava con un nerbo di palma, come era sempre stato. Un branco d’elefanti, d’ardore effervescenti, salmodiò la novella del bruco gigolò.
La seconda finzione fu quella di un Felis Pardus. Imenotteri luccicanti, che solevano punzecchiare carni al Tropico del Capricorno, annunciarono la Sua comparsa. Come se un malvagio nemico si manifestasse, io stessa fui costretta ad adeguarmi al suo sembiante, assumendo aspetto di fulvo Srgàlà. La Regina Leopardo disegnò percezioni senza remore, mentre si riparava al sicuro della mente. Percepì luoghi e tempi, ravvivò ribollendo e pulsando, provocando e sedando. Trasformati in incubi vogliosissimi, sotto tale tensione, i miei nervi co- minciarono a distendersi. Signora Leopardo della mia devozione, angelo atro, scia, lucciola, mia lussuria ri- solvi! Crema di feedback la distorsione mi alimenta in ogni pasto crudo, selvaggia, mi divincolo. Potessi essere la nubiana unta di mirra, venuta a tendere la mia esca. Dissemino trappole con in mano una gabbia maculata. I miei artigli sono pieni di resina. Così mi parlò. Il melo apra la tua bocca! Rimango verde in ogni stagione, i miei semi sono simili ai tuoi denti. L’albero di fico apra la tua seconda bocca! Catechizzò la Regina.
Regina Leopardo: Fino alle terre irrigate, fino alle terre vergini a colpi di verga, mia piccola, insignificante Sciacallo! I battenti sono aperti, i chiavistelli sciolti all’imbocco del mio canale. So produrre del buon nettare e domani è il gran giorno. Sciacallo: Oh, sì, svengo al sol immaginare d’esser destino schiavo e bendato di un’autrice hard. Quando sei di buon umore sfogliami, trattami come d’uso e se vorrai levarti la voglia fallo pure. Vorrei strisciare sulla tua aurea navicella come un lombrico! Non lasciarmi appassire in un vaso ma schiacciami in un tomo. Regina Leopardo: M’accendo di magma d’arancio. Febbrilmente mi stuzzico, in modo tortuoso, da far traballare la criniera di un’Amazzone.
Tra sete non più sibilo al ventre, cuscini attutirono l’attesa mentre distesa, attesi l’eclissi.
Regina Leopardo: Non illuderti, non domerò mai la mia energia ribelle. Richiamo al mio inguine un inconfessabile labirinto. Io, regina, stipo in tasche passione e potere.
54Sciacallo: Ho smania. Ti supplico, convoca il Principe Varano! Scivolando giù, dormo cullata all’interno di un frutto. Siamo ricoperte di licheni e più grandi sono le tue zampe. Regina Leopardo: Lisciati le serpi sulla testa. Io sono la Regina in calore, posso fare tutto, anche serrare il tuo miserabile universo con un lucchetto di cera. Io sono nuvole e pioggia, sono Yun yu. Sono amaro gettito di pompa e lingua lucertola di cuoio satinato. Ruggisco nel tuo sfintere e la risaia ti viene dritta in bocca. Sono fellatio d’intenti. Hai giocato d’azzardo, mia turpe sciacallo.
Sciacallo: In gogna d’umori langue il mio desiderio di cosce assassine, di purghe violente, intrise di frizzante calendula. Regina Leopardo: Non osare screditarmi, lurida bestia! Sciacallo: Quando la spugna è colma, lecco spudorata.
Regina Leopardo: Io impongo sul trasgressore la sua trasgressione, alla peccatrice il suo peccato. Sciacallo: Ricevo rovi e cardi da strofinare sulla pelle. Regina Leopardo: Rammenta bene! Ti castigo se non mi rispetti.
Sciacallo: Legami di depilazione totale. Regina Leopardo: Ah ah ah, con smaniosa goduria alla cura dello staffile, in ar- madi segreti della libido, mi dedico e t’infliggo. Sciacallo: Infranta e superata, non ho più alcun ritegno. Regina Leopardo: Non si ripeta due volte questo giorno, scheggia di tempo, grande gemma. Mai più tornerà questo giorno. Ogni istante vale una gemma inestima- bile. Sciacallo: Il soffio espirato esce e il soffio inspirato entra a proprio piacimento, mia Regina. Regina Leopardo: Quando io stessa fremo, dispiego il mondo intero, sappilo. Sciacallo: Uno sciacallo, pezzo di carne da usare; è proprio questo che sono ora, uno sciacallo. Regina Leopardo: La ripetitività è devastante: noia per il movimento, tragedia per l’ascoltatore, prolasso dell’intelligere. Sciacallo: Tracotante ed inflessibile mi trasporti nell’inedito. Succhio dita ad una inquisitrice. Regina Leopardo: Il frutto di un mollusco non si concede al primo tentativo d’invasione. Sciacallo: Mi riempio di magnesio e potassio. Regina Leopardo: Sei quasi senza saliva! Lasciati schiudere. Non ho voglia d’altro.
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Azione creativa: Andrea Mantegna
Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 Mantova, 13 settembre 1506) è stato un pittore e incisore veneziano. L’irreprensibile, come lo chiamavano alcuni suoi contemporanei, si formò nella bottega padovana dello Squarcione, dove maturò il gusto per la citazione archeologica; venne a contatto con le novità dei toscani di passaggio in città: Fra Filippo Lippi, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e soprattutto Donatello. Mantegna si distinse per la perfetta impaginazione prospettica, il gusto per il disegno nettamente delineato e per la forma monumentale delle figure.
Rivendicazione dei diritti della donna
Mary Wollstonecfraft (1792)
“Chi ha fatto dell’uomo il solo giudice, se la donna partecipa con lui del dono della ragione?
La donna ha un diritto inalienabile alla libertà e all’eguaglianza, perché questi sono diritti naturali ai quali nessun essere umano deve rinunciare e che sono garantiti addirittura dalla civiltà: il diritto e il dovere di ottenere il meglio che la società ci offre. E ciò comprende anche il dovere di creare i mezzi per riceverli.”
E’ tempo di compiere una rivoluzione nei costumi femminili -tempo di restituire le donne alla loro perduta dignità –e di renderle partecipi della specie umana in modo che, riformando se stesse, riformino il mondo… E’ tempo di distinguere gli eterni e immutabili principi della moralità dagli usi e dalle abitudini, che possono differire a seconda dei luoghi. Se gli uomini sono semidei, bene, allora vogliamo servirli!” (op.cit. p.134)
Essa si domandava quale fosse l’alternativa per le donne che non potevano sposarsi né avere figli. L’eguaglianza borghese e politica doveva affermarsi sia come diritto che come necessità e tutti gli uomini che non consideravano le donne sufficientemente “preparate” per queste conquiste, in realtà gliele negavano. Ma, d’altro canto, poiché erano gli uomini ad avere il massimo di interesse a tenere la donna come un animale domestico, non era una contraddizione che essi stessi si arrogassero il diritto di poter stabilire le misure adatte alle donne?
Oltre alle sue argomentazioni, la Vindication offre un quadro estremamente vivace di esperienze, che dimostra la capacità da parte di Mary di analizzare le condizioni in cui crescevano le donne nell’Inghilterra di allora, in particolare di come venissero stimolate ad essere delle belle bambole, capaci di mentire e dissimulare, come richiedevano le convenzioni sociali. Molto prima di Fourier e Owen, Mary si convince che il matrimonio borghese è una specie di “prostituzione legalizzata”.
Il mio viaggio…. rotta “Coeva”: intenzioni e bilancio di un percorso.
Non mi interessa viaggiare solo nella testa, perché mi interessano le persone e le cose, i colori e le stagioni, ma mi è difficile viaggiare senza la carta, senza libri da porre dinanzi al mondo come uno specchio, per vedere se si confermano o si smentiscono a vicenda.
Claudio Magris
Il viaggio come “viàtico” rimanda all’idea molto concreta di provviste, di scorte da consumare o scambiare per la via (poco etimologicamente si potrebbe pensare al viaggio come un suffisso di “via”…), luogo di incontri ma anche di scontri e di pericoli, frequentata dai briganti ma anche dal buon samaritano, dal frettoloso mercante e dal fiducioso pellegrino. Il termine inglese “travel”, d’altronde, non ci ricorda il nostro “travaglio”?
Il viaggio dunque come transazione, come scambio quasi osmotico con l’altro non più di merci, ma di ciò che più è prezioso: emozioni, sensazioni, esperienze. Il bilancio tra il dare e l’avere potrà anche non essere positivo: sta qui, forse, la radice della paura del viaggio, la paura di ciò che accadrà per la via alle nostre “provviste interne”. Questa è in fondo l’avventura, quello che dovrà “advenire” a chi intraprende un viaggio, così diversa dalla ventura (non solo etimologicamente) di chi aspetta passivamente o troppo prudentemente il compiersi inesorabile della propria sorte o destino. Campione d’avventura è senz’altro l’Ulisse di Dante, non tanto per i chilometri percorsi, ma per “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, / e de li vizi umani e del valore;”: in quell’ “esperto” così pregnante a fine verso si percepisce nettamente sia il profumo inebriante di un fugace amore , sia l’ardore del corpo del nemico in battaglia. Nemmeno l’amore e l’affetto per il figlio, il padre e la moglie lo possono trattenere; ma sono altri i motivi per cui finisce in Malebolge.Sempre Ulisse: “ma misi me per l’alto mare aperto”: in quel pronome posposto, così scomodo, forzato e dissonante, vi è tutto il travaglio che porta alla formazione di una volontà consapevole e sofferta di chi si appresta non solo fisicamente a partire. Il viaggio è, in ultima istanza, la voglia, l’intenzione di conoscere (l’Ulisse di Joyce?), di far conoscere e di scambiare con l’altro le nostre “provviste interne”. Poco contano i chilometri: la meta può essere vicina, addirittura visibile in lontananza, come il Faro per James di “To the Lighthouse”. Il titolo originale è di per sé un capolavoro: la non menzionata gita sarà alla fine soltanto un pretesto per scoprire, anche dolorosamente, qualcosa di essenziale.
Fiorella Corbi
Platone. Filosofia è avere tempo in un mondo che non ne ha.
Questo brano contiene la celebre narrazione di Talete e della servetta tracia. All’indagine sulla dialettica aggiunge due elementi importanti: 1) la necessità di dedicare alla filosofia il tempo che le occorre; Platone qui è durissimo: solo i filosofi sono liberi, gli altri sono servi, “persone educate a servire paragonate a uomini liberi”; ma questo fa del filosofo una persona diversa dalle altre, e non è affatto detto che gli altri lo accolgano bene (si ricordi cosa è detto nella Repubblica a proposito dello schiavo liberato, che ricorda la figura di Socrate e la sua morte, e le stesse esperienza personali di Platone in Sicilia descritte nella Settima Lettera). Nel secondo brano del Sofista che qui riportiamo Platone torna a definire la dialettica “scienza degli uomini liberi”. 2) la dialettica non è percorso lineare, ma consente di seguire linee divergenti e non sempre linearmente coerenti (tanto che il discorso va lasciato lì, a volte, per prenderne un altro, con brusco salto): questo fatto richiama l’idea che il compito non sia terminabile, la ricerca non possa finire (e la dialettica sia uno stile di vita, oltre che pensiero). E’ comunque ricerca dalle molte vie.
Teodoro: “E non abbiamo dunque tempo a nostra disposizione, Socrate?”
Socrate: “Certo che l’abbiamo. A dire il vero, mio venerabile amico, mi è venuto di fare la stessa riflessione che adesso mi si impone a proposito di un’altra cosa: sembra proprio che le persone che hanno dedicato molto tempo della loro vita alle ricerche filosofiche quando vanno davanti ai tribunali fanno una figura ridicola come oratori”.
“Che vuoi dire?”
“Quelli che fin da giovani hanno frequentato tribunali e luoghi simili se messi in rapporto con coloro che sono stati allevati nella filosofia, e negli studi che essa ispira, rischiano proprio di sembrare persone educate a servire, paragonati a uomini liberi”.
“Come mai?”
“E’ che a questi ultimi il bene che tu dici è sempre presente: hanno tempo, e i loro discorsi sono fatti con calma, col tempo che ci vuole. Guarda noi adesso: è già la terza volta che prendiamo discorso dopo discorso; essi fanno la stessa cosa se un argomento, a loro come a noi, piace di più di quello che stanno trattando e non importa loro nulla della lunghezza o brevità dell’argomento: importa solo di raggiungere la verità. Gli altri non parlano mai che a gente a cui il tempo manca: l’acqua della clessidra che scorre davanti ai loro occhi non si ferma ad aspettarli. Non hanno libertà di andare a fondo a loro gradimento sull’argomento del loro discorso: la necessità è là, il loro avversario è implacabile con il suo atto di accusa, e gli articoli della legge una volta proclamati sono barriere che l’arringa non deve oltrepassare, consacrati da reciproco giuramento. Queste persone non sono mai altro che schiavi davanti al loro comune padrone che siede avendo nelle mani una qualche denuncia. I loro argomenti non hanno mai una portata indifferente, ma sempre immediatamente personale, e spesso la loro stessa vita è il prezzo della gara; così tutte queste prove rafforzano le loro energie, aguzzano il loro ingegno, li rendono abili a dir parole che adulano il padrone, insegnano loro la maniera di guadagnarne la benevolenza e le loro anime diventano piccole e contorte. Crescita, rettitudine, libertà, la stessa giovinezza, tutto la schiavitù porta loro via, costringendoli a pratiche tortuose; getta le loro anime ancora giovani in pericoli così gravi e in così gravi paure che non potendo contrapporvi il giusto e il vero, si rivolgono tutti alla menzogna, all’ingiustizia che si fanno gli uni con gli altri, e così si piegano, vivono in modo contorto, si rimpiccioliscono. Così non c’è più nulla di sano nel loro pensiero quando la loro adolescenza ha termine e diventano uomini, e credono di essere esperti e saggi. Ecco dunque il loro ritratto, Teodoro; quanto a coloro che formano il nostro coro, vuoi che li passiamo in rassegna o vuoi che senza fermarci torniamo ai nostri argomenti per evitare di esagerare in quel che abbiamo appena finito di dire, usando in eccesso la nostra libertà e passando facilmente da discorso a discorso?”
“Per nulla Socrate: passarli in rivista si impone, tu hai detto molto bene: non siamo affatto noi che formiamo questo coro legati ai discorsi come dei servi. Sono i discorsi ad essere nostri, come gente di casa, e ciascuno di essi aspetta finché a noi piace di finire con lui. Non c’è giudice infatti, non c’è spettatore, come ne hanno sempre davanti i poeti, che siano lì a valutarci e a comandarci.”
“Parliamo dunque dei maestri del coro visto che dobbiamo farlo, sembra, visto che tu giudichi questa una cosa da fare; perché di coloro che non apportano nessuna genialità nella loro pratica della filosofia, a che scopo parlarne? Dei veri filosofi posso dire questo, che nella loro giovinezza essi certamente ignorano quale sia la strada che porta alla pubblica piazza, a quale indirizzo si trovino il tribunale, la sala del consiglio e tutte le altre sale in cui in comune nella città si prendono le decisioni. Essi non hanno né la vista né l’eco delle leggi, delle decisioni, dei relativi dibattiti o della redazione dei decreti. Gli intrighi delle eterie per conquistare una magistratura, le riunioni, i festini, i giochi allietati da suonatrici di flauto, a tutto questo non si sognano nemmeno di prender parte. Ciò che è accaduto di bene o male nella città, i guai che a qualcuno hanno trasmesso i suoi anziani, uomini o donne, di tutto questo il filosofo sa meno, dice il proverbio, del numero dei boccali per riempire il mare, e tutto questo non sa affatto di non saperlo perché se si astiene da queste cose non è allo scopo di crearsi una fama: questo dipende dal fatto che soltanto la realtà del suo corpo ha nella città abitazione e sede. Il suo pensiero, invece, non tiene affatto conto di tutto ciò che vale poco o niente e guida il suo volo dappertutto come dice Pindaro, “sondando gli abissi della terra e misurandone le superfici, seguendo il cammino degli astri ‘nelle profondità dei cieli’ e, di ciascuna realtà, scrutando la natura nel suo dettaglio e nel suo insieme senza mai lasciarsi irretire da ciò che è immediatamente vicino”.
“Che vuoi dire con questo Socrate?”
“Voglio dir questo. Un giorno Talete osservava gli astri, Teodoro, e con lo sguardo rivolto al cielo finì per cadere in un pozzo; una sua giovane serva della Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, dicendogli che con tutta la sua scienza su quel che accade nei cieli, non sapeva neppure vedere quel che aveva davanti ai piedi. La morale di questa storia può valere per tutti coloro che passano la loro vita a filosofare, ed effettivamente un uomo simile non conosce né vicini né lontani, non sa cosa fanno gli altri uomini, e nemmeno se sono uomini o altri esseri viventi. Ma che cosa sia un uomo, in che cosa per sua natura deve distinguersi dagli altri esseri nella attività o nella passività che gli è propria, ecco, di questo il filosofo si occupa, a questa ricerca consacra le sue pene. Immagino che tu mi segua, Teodoro, o mi sbaglio?”
“Ti seguo e quel che dici è la verità.”
“E’ questo dunque, mio buon amico, nei rapporti privati il nostro filosofo; ed è così anche nella vita pubblica, come ti dicevo all’inizio. Quando nei tribunali o altrove bisogna che, contro la sua volontà, tratti di cose che sono davanti a lui, sotto i suoi occhi, finisce non soltanto per far ridere le donne di Tracia, ma cade effettivamente nei pozzi, non esce dalle difficoltà della vita, per mancanza di esperienza, e la sua terribile goffaggine gli fa fare la figura dello stupido. Infatti, se è costretto a subire le cattiverie della gente, non sa lanciare a nessuno degli insulti perché non sa nulla dei mali di ciascuno: non se ne è mai occupato. Messo così in difficoltà, appare ridicolo. Di fronte agli elogi, all’arroganza cui gli altri si gloriano, non fa affatto finta di ridere, ma ride davvero, e in modo così aperto da essere scambiato per uno stupido”.
(Platone, Teeteto, 172 c – 177 c)
Jefferson Airplane -White Rabbit: una delle atmosfere di Coeva
Una pillola ti rende più largo
Un’altra pillola ti rende più stretto
E un’altra che ti da tua madre
Non fa niente di niente
Vai e chiedi ad Alice
Di quando si sente alta dieci piedi
E se vai a rincorrere conigli
E sai che stai per perdere
Raccontagli del camion di pipe ad acqua
Che ti ha chiamato
Chiedi ad Alice
Di quando era solo piccola
Quando l’uomo sulla scacchiera
Si alza e ti dice dove devi andare
E hai appena mangiato alcune specie di funghi
E la tua mente lavora piano
Vai e chiedi ad Alice
Penso che lei lo sappia
Quando logica ed equilibrio
Sono cadute in una morte leggera
Il guerriero bianco parla al contrario
E la regina rossa é uscita di testa
Ricorda quello che ha detto il topolino:
nutri la tua mente
nutri la tua mente!
Constantinos Kavafis
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non la svilire portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
Constantinos Kavafis
È uno dei più grandi poeti moderni. Era nato nel 1863 ad Alessandria d’Egitto “in una casa della via Cherif”, come scrisse in un appunto autobiografico.
La sua famiglia era greca e quando Constantinos era un bambino si trasferì in Inghilterra. Nel 1869 morì il padre e dopo alcuni anni di viaggi tra la Francia, Constantinopoli (l’odierna Istanbul) e la Grecia, Constantinos e l’amatissima madre fecero ritorno nella vivace città egiziana.
In Europa, in campo poetico, dominavano i decadenti francesi, in Egitto vi era la grandissima e mirabile tradizione della poesia araba e per ragioni familiari Constantinos era vicino anche alla poesia ellenica di Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte.
Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto, coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia.
In vita editò solo due raccolte, esili numericamente, nel 1904 e nel 1910.
Spesso donava le sue poesie agli amici, a volte le raccoglieva in gruppi che rilegava lui stesso o le incollava su quaderni.
Morì nel 1933, il giorno del suo compleanno: il 29 aprile. Un caso o un destino che è capitato ad altri, tra cui Raffaello Sanzio e Ingrid Bergman, e in cui il suo traduttore, Nelo Risi, vide quasi un simbolo.
Nel ’35 una casa editrice di Alessandria pubblicò la sua opera omnia: 150 liriche.
In Italia dal 1919 erano state pubblicate poche poesie su riviste specialistiche: aveva parlato di lui il pessimo Marinetti e tempo dopo Ungaretti, Montale, Caproni.
I temi principali della poesia di Constantinos sono il ricordo, la nostalgia, la vita che sfugge, l’amore omosessuale, l’ironia, il disincanto, la morte, la compassione.
Al centro delle sue poesie vi sono sempre uomini e donne con i loro sentimenti, i loro dilemmi, la loro umana pietà.
AFRODISIACI BRUTALI: Caimani e Piranha
In piena Amazzonia, nel cuore dell’america del Sud, là dove ci si perde in una vegetazione venusiana, la scimmia è un piatto molto apprezzato. A seconda della stagione, la carne è dura o tenera, ma il sapore è sempre forte e dolciastro… La selva è un immenso labirinto caldo: ci sono liane che accumulano litri e ancora litri d’acqua da bere, cortecce curative per le febbri, foglie per il diabete, resine cicatrizzanti, latte d’albero che lenisce la tosse, lattice per incollare la punta delle frecce: insomma è la più grande riserva biogenetica del pianeta. Gli Indios rovesciano un veleno estratto dalle piante nell’acqua per assopire i pesci che vengono poi catturati quando emergono galleggiando in superficie; poi li mangiano senza correre nessun pericolo perché l’effetto del veleno svanisce quasi subito. A partire dal luogo in cui le acque del Rio Negro confluiscono in quelle del Salomoes, il fiume, ampio quanto il mare in Normandia, prende il nome di Rio delle Amazzoni, uno specchi scuro quando è calmo, spaventoso quando scoppiano i temporali. All’alba, quando il sole fa capolino, appaiono sempre pronti a giocare i delfini rosati, tra i pochi abitanti delle acque amazzoniche a non essere mangiati perché la loro carne è amara e la pelle inutile, ma che gli Indios uccidono ancora con gli arpioni per strappar loro gli occhi e i genitali che poi trasformeranno in amuleti per la virilità e la fertilità. In quel fiume…avevo visto un paio di turisti russi pescare una dozzina di piranha… I piranha sono saporiti e, stando a qualche palato brasiliano, anche afrodisiaci…In queste acque vivono più di trenta specie di mante, tutte molto pericolose, e vi dimora anche il leggendario anaconda, il più grande serpente d’acqua, un animale preistorico che raggiunge spesso i quindici metri di lunghezza… I caimani, altro boccone afrodisiaco della regione, vengono cacciati di notte. Sono uscita in canoa con una guida adolescente…avevamo con noi una potente torcia a pile che abbagliava i pipistrelli…l’indio puntava la torcia sulla vegetazione e, se vedeva un paio di occhietti rossi, si tuffava in acqua senza esitare. Si sentiva una zuffa e mezzo minuto dopo riappariva con un jacarè, il caimano amazzonico, preso a mani nude per il collo se era piccolo o con una corda al muso se più grande.
In un villaggio composto in realtà da un’unica famiglia di Indios saterè mauè, assaggiai per la prima volta il jacarè… Per curiosità mi avvicinai al fuoco che ardeva sotto la tettoia comune e vidi un caimano lungo un metro e mezzo, diviso in quattro come un pollo, con unghie, denti, occhi e pelle che arrostiva tristemente. Dai ganci pendevano due piranha e un animale simile a un topo, ma poi gli vidi il pelo e capii che era un porcospino. Assaggiai tutto, ovviamente: il jacarè sapeva di baccalà secco e stracotto, ma non posso esprimere un giudizio sulla cucina indigena in base a quest’ultima e limitata esperienza.
(Isabel Allende) AFRODITA